Stabilimento ex Dormisch di Emilio Mattioni

Fra pochi giorni inizierà la demolizione totale dello stabilimento ex Dormisch, secondo le indicazioni di un progetto che tutti hanno potuto vedere esposto all’ex mercato del pesce di Udine.

Sia benvenuta l’iniziativa della esposizione pubblica di un progetto di tale importanza, su iniziativa, evidentemente, dell’altrettanto importante investitore (la Danieli) in quanto l’amministrazione comunale risulta non avere purtroppo questa abitudine (per quanto sia doveroso ricordare che l’ex mercato è stato concesso dal comune stesso).

Una ulteriore occasione per ricordare come Udine non disponga di un luogo, (un urban center) che unifichi in sé ad un tempo iniziative di conoscenza della storia della città e di confronto sulle ipotesi per il suo futuro.

Benvenuta ed opportuna è anche la destinazione d’uso ora prevista, sia in quanto alternativa alle precedenti ipotesi che vi collocavano nuove attività commerciali, che per la previsione qui di spazi per lo studio ed la ricerca, complementari al Centro Studi adiacente e, nelle intenzioni, con caratteri una apertura verso la città .

Ma l’oggetto di queste poche righe non sono le lodi all’iniziativa bensì l’indicare quanto di minaccioso è contenuto nel progetto stesso. Esso prevede infatti la distruzione – che possiamo da subito affermare come non necessaria- della parte del complesso progettata dall’architetto Emilio Mattioni e che spesso viene descritta come “la nave”, con la prora che nel punto estremo dell’area “solca” la roggia adiacente e per la successione di oblò circolari che la caratterizzano.

Una distruzione sbagliata per più motivi, convergenti.

Il primo riguarda la figura del suo autore: Emilio Mattioni è stato, semplicemente, uno dei protagonisti dell’architettura friulana della seconda metà del XX secolo, anche in quanto partecipe alla cultura architettonica italiana nel suo momento più fertile, quello sviluppatosi intorno all’Istituto Universitario di Venezia negli anni 50 e 60 del secolo scorso. Assistente universitario di Giancarlo De Carlo ed Aldo Rossi, condivise con essi ed altri protagonisti di quella temperie didattica e progetti importanti. Non è qui il caso di fornire qui note biografiche di un architetto di qualità indubbia.

Sappiamo che tutto ciò potrebbe non essere motivo sufficiente per mantenere in piedi (almeno una parte considerevole) del suo edificio. L’architettura contemporanea è in un momento di forte delegittimazione e ogni giudizio deve essere argomentato: questa porzione della Dormisch è un edificio di qualità significativa. La breve descrizione del manufatto, delle sue qualità e il suo ruolo in un punto così frequentato della città è necessaria per la causa della sua conservazione

Mattioni si impegnò molto nella progettazione di edifici industriali che rimangono ancora rilevanti per chiarezza strutturale, funzionale e figurativa. Qui il tema pare essere stato più difficile che in altri casi dati vincoli presenti: esso è stato risolto con quella naturalezza e senso della necessità che spesso contraddistingue le grandi architetture.

L’edificio è un edificio industriale e non ha bisogno di nascondere la sua natura. Non si camuffa: occupa tutto il lotto disponibile e ne ricalca i confini – acqua e strada.

Da questo chiaro gesto discendono due (a mio giudizio esemplari) strategie. La prima consiste nella scansione del prospetto attraverso gli elementi verticali prefabbricati e i fori scuri sui pannelli bianchi. Ne risalta il ritmo, percepibile da chi in auto sfila lungo la parete e la sua tesa curvatura. Una percezione cinestetica, pensata per l’unica percezione abituale e possibile dell’edificio, quella dall’auto.

La seconda non meno importante è nella conformazione del grande portone, che risolvendo diversi problemi tecnici, come la giacitura su tracciato curvilineo, si trasforma da diaframma con ante complanari in un solido virtuale che, quasi fosse in un momento del suo movimento, scava con il suo volume la facciata, e ne cambia e dichiara la natura: non un diaframma , una superficie, bensì un volume, un solido, una architettura che possiede un interno. Non pelle figurativamente astratta ma edificio, profondamente contestuale, sottolineato anche dall’enfasi in altezza dell’ultimo, tratto, speciale, che ne sottolinea la “prora”.

La semplicità dei mezzi adottati non è qui strumento, opzione formale, scelta stilistica ma diviene essa stessa coerentemente “inevitabile”, materiale portante del ragionamento.

Ma esiste una motivazione stringente che deve far optare per la conservazione di tale soluzione e perimetro edilizio: la sua totale compatibilità con il progetto presentato, che infatti ne riprende alcuni caratteri come la giacitura sul sito: semplicemente la demolizione non è necessaria ed esistono le tecnologie per il riuso compatibile dell’area entro il perimetro conservato.

Ogni architetto sa che ogni costruzione presuppone una distruzione e quindi “distruggere con senno” (come diceva Luigi Snozzi) diventa importantissimo.

Come sappiamo che nel nostro momento storico il giudizio sul ”cosa conservare” è sommamente difficile e controverso, ancora di più in Italia ove la quantità del “conservabile” è da molti ritenuta, spesso a ragione, enorme.

Come sappiamo che il giudizio definitivo dovrebbe essere orientato anche dal giudizio sulla qualità “del cosa” sostituisce il preesistente.

Ma qui non si vuole entrare in tale giudizio di merito riguardante il progetto complessivo: abbiamo la possibilità concreta di ignorarlo (almeno per l’interrogativo sulla conservazione dell’edificio di Mattioni) e quindi darlo per acquisito ricordando quanto esso sarebbe certamente migliore se si confrontasse con lo stesso.

Sentiamo il dovere di citare, ancora una volta, la provocazione tutta progettuale che Italo Calvino ci indicava nelle ultime, famosissime, parole della descrizione fantastica di Zenobia, una delle sue Citta Invisibili :

… “è inutile stabilire se Zenobia sia da classificare tra le città felici o tra quelle infelici. Non è in queste due specie che ha senso dividere le città, ma in altre due: quelle che continuano attraverso gli anni e le mutazioni a dare la loro forma ai desideri e quelle in cui i desideri o riescono a cancellare la città o ne sono cancellati.”

Risposta complessa ma domanda ineludibile: in quale specie desidera stare, oggi, Udine?

Gianna Malisani
Isabella Reale
Giovanni Vragnaz
Antonio D’Olivo
Paolo Nicoloso
Marco Stefani
Giovanni Corbellini
Ferruccio Luppi
Alessandra Marin
Annalisa Avon
Luciano Campolin
Pierantonio Val
Cecilia Ricci
Renza Pitton
Cristina Calligaris
Camilla Pevere
Vida Rucli
Alfonso Firmani
Sergio Pascolo
Bruna Cromaz
Ramon Pascolat
Moira Morsut
Enrico Smareglia
Elisa Vinicio
Karin Fotin Savramis
Tatiana Cosolo
Maurizio Burelli
Serena Giacchetta
Elena Olivo
Daria Mattioni
Aldo Peressa
Carlo Cossar
Rodolfo Lepre
Valentina Lepre
Andrea Renna
Donatella Ruttar
Alessandra Micol
Michele Tavano
Alessandra Lepore
Isabella Moreale
Luigi Montalbano
Francesco Polesello
Lucia Giuliani
Maria Luisa Bassi
Renato Bosa
Alberto Buvoli
Bruno Cadorini
Amerigo Cherici
Giovanni Della Mea
Riccardo De Santis

Enrico Leoncini
Bruno Micali
Emma Montanari
Bernardino Pittino
Carlo Enrico Tincani
Gianpaolo Carbonetto
Elsa Carbonetto
Giovanni Tavoschi
Paola Tavoschi
Ferdinando Milano
Adriano Virgilio
Veronika Merlin
Claudia Mattioni
Sara Esposito
Francesca Tonon
Jeidi Lekaj
Simona Gisic
Olimpia Avete
Vincenzo Bray
Manuela Zanier
Barbara Zanessi
Paolo Di Bartolomeo
Cristiana Giorgiutti
Manlio Di Giusto
Giovanna Aurelia Venier
Paola Pigato
Donatella Debidda
Giorgio Della Bianca
Luigi Locatelli
Maria Pia Tamburlini
Sara Sgorlon
Franco Romano Falzari
Roberta Capogrosso
Martines Massimiliano
Livia Comandini
Renzo Toschi
Moreno Baccichet
Walter Bortolossi
Alessandro D’Osualdo
Emanuela Pezzetta
Corrado Albicocco
Sara Cosarini
Stefania Miotto
Gianfranco Cozzi
Chicca Coccitto Giacomuzzi Moore
Pietro Valle
Lucia Della Mea
Erna Fiorentini
Chiara Zandigiacomo
Paola Zanessi